Togliete i
sorrisi dal volto delle donne. Togliete i colori dalle vesti. Togliete la
musica per le strade e le risate dei bambini. Avrete un mondo in bianco e nero.
Ho
attraversato le vie polverose di quel mondo nell’ultima settimana, nascosta in
una veste nera che avrebbe dovuto cancellare le tracce della mia personalità e
del mio corpo.
Ho avuto al mio fianco persone premurose ed ospitali, ma ho
incontrato molti volti diffidenti e ostili. Per la prima volta nella vita ho
sperimentato il significato della discriminazione. Discriminazione non è una
parola, ora lo so. Discriminazione è una ferita. La mia ferita è stata
superficiale e destinata a guarire in fretta, ma ora posso immaginare il senso
di quel dolore. Capisco al di là di ogni lezione di storia, film o
documentario, la rabbia che ha montato sotto la pelle dei popoli, delle razze e
delle minoranze che hanno lottato per affermare il diritto all’uguaglianza.
Sono stata
accolta in un mondo bianco e nero, eppure io non riesco a dividere tutto in due
parti che non si incontreranno mai, neppure riguardo quel mondo difficile da
capire. Sono stata accolta in casa di estranei nel rispetto del più profondo
senso di ospitalità e mi sono sentita sinceramente onorata.
Mi sono state
raccontate storie di una religione affascinante e complessa, trattata troppo
spesso con immeritata superficialità e ignoranza. Ho assaggiato sapori nuovi e
buonissimi; ho visto piovere in una città in mezzo al deserto per cui la
pioggia è un evento; ho visto riempire il serbatoio di un SUV con €12,00! Ho
visto moderni grattacieli svettare su una distesa di polvere e silenzio.
Quel che mi resta sono gli occhi delle donne, tutto
ciò che hanno da mostrare, perché spiare è tutto ciò che gli è concesso. I loro
movimenti lenti mentre mangiano nascoste, le loro bambine che un giorno saranno
donne segrete.
Mi resta il
senso di umiliazione di fronte ai no che mi impedivano di accedere alle aree
degli uomini, di fronte a mani che non osavano stringere le mie e ad occhi che
non si degnavano di guardarmi.
Mi resta la
mia abaya nera, senza la quale mi sarei sentita ancora più fuori luogo. Mi ci
sono nascosta dentro, provando a vivere nella pelle di un’altra. Il velo
scivola facilmente sui miei capelli lisci e le mie mani sono inesperte nell’annodarlo
a dovere. Ho scoperto che la veste ha il vantaggio che sotto si possono
indossare abiti sgualciti, ma rischia di farti inciampare ad ogni passo!
Mi resta l'odore della pioggia asciutta. Mi resta la chiamata alla preghiera delle 4.00 del mattino, che interrompeva e cullava il mio sonno.
Più di ogni
altra cosa mi resta il desiderio di viaggiare e conoscere e capire che il mondo
non è affatto bianco e nero.
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