venerdì 11 maggio 2012

Il corpo dell'odio


Questo blog non è un diario (per il semplice fatto che i diari non mi piacciono, mentre questo blog sì) e non è molte altre cose. Per me più che altro è una buona scusa, la scusa di intrecciare pensieri, esperienze ed emozioni in un unico tappeto, che poi potrà accogliermi per riposare sdraiata guardando il soffitto o mi farà volare, in un altrove inaspettato. Il post di oggi è: Il corpo dell’odio.

Ieri sera sono andata a teatro a vedere “Penelope in Groznyj”, uno spettacolo scritto e diretto da un giovane (e già affermato) autore e regista, Marco Calvani. 16 attori in scena (alcuni di loro decisamente brillanti), un linguaggio registico potentemente espressivo e una storia che non ha mai fine: l’odio.
L’autore prende una linea narrativa (le barbarie dei Proci ad Itaca durante la lunga assenza di Ulisse) e ci riscrive sopra una storia moderna, la guerra in Cecenia; ma quel che più conta è ciò che si legge, perfettamente evidente, tra le righe: la perversione del male, l’arroganza e la follia del potente, la sopraffazione del corpo e le donne, la loro tenacia e la loro devastazione. Lo spettacolo offre tantissimi spunti di analisi, tanti motivi per provare rabbia, tante domande, ma quel che io continuavo a ripetermi era: il corpo dell’odio. Corpi nudi privati di natura, spogliati di erotismo, corpi urlati.

In questo momento (e qui arrivano le trame del tappeto di cui parlavo sopra) sto leggendo “Leggere Lolita a Teheran”, di Azar Nafisi. Proprio ieri leggevo un passaggio in cui l’autrice parlava di come lentamente le leggi della Repubblica islamica dell’Iran, l’avessero trasformata in un corpo invisibile. Era costretta a nascondersi, coprirsi, cancellarsi per non offendere la morale. Il suo corpo era una minaccia, il suo corpo era un codice dell’odio. E lei si ripeteva, io non esisto. “Esisto? Esisto io? Questa pancia, questa gamba, queste mani? Purtroppo i guardiani della rivoluzione e gli altri garanti della nostra moralità non guardavano il mondo con i miei stessi occhi. Loro vedevano mani, volti, rossetti; dove io vedevo una specie di fantasma che fluttuava etereo e silenzioso lungo la strada loro individuavano ciuffi ribelli e calzette sovversive.”

Quel che Penelope, nello spettacolo, continua a ripetersi per sopravvivere è che il suo corpo è solo un involucro, un contenitore, una cassa, la sua anima non può essere intaccata. Saperlo in qualche modo superfluo vale spesso come salvezza, salvezza dall’umiliazione o dall’abuso (che a volte le donne stesse ne fanno).
Il corpo è molto più di una custodia, il corpo è il nostro linguaggio, è l’esperienza del mondo. 
Con il corpo, su di esso e con esso, conosciamo l’amore, e con esso capiamo l’odio.
Tutto ciò che abbiamo di più caro al mondo lo copriamo col nostro corpo, per proteggerlo, per goderne, per viverlo e ricordarlo. Le mani parlano, perché le mani cercano.
Attraversata con violenza la pelle non c’è più la strada del ritorno, resta solo altro dolore, altra rabbia, altra tenacia (se si è forti abbastanza), resta un’anima ferita, perché ciò che la contiene è stato saccheggiato.
Quel che facciamo del nostro corpo e del corpo degli altri è un racconto, e dai tempi di Omero ai giorni nostri, da Est a Ovest, da Nord a Sud, non fa che ripetersi la storia dell’odio.

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