Questo blog non è un diario (per il semplice fatto che i diari non mi
piacciono, mentre questo blog sì) e non è molte altre cose. Per me più che
altro è una buona scusa, la scusa di intrecciare pensieri, esperienze ed
emozioni in un unico tappeto, che poi potrà accogliermi per riposare sdraiata guardando
il soffitto o mi farà volare, in un altrove inaspettato. Il post di oggi è: Il
corpo dell’odio.
Ieri sera sono andata a teatro a vedere “Penelope in Groznyj”, uno
spettacolo scritto e diretto da un giovane (e già affermato) autore e regista,
Marco Calvani. 16 attori in scena (alcuni di loro decisamente brillanti), un
linguaggio registico potentemente espressivo e una storia che non ha mai fine:
l’odio.
L’autore prende una linea narrativa (le barbarie dei Proci ad Itaca
durante la lunga assenza di Ulisse) e ci riscrive sopra una storia moderna, la
guerra in Cecenia; ma quel che più conta è ciò che si legge, perfettamente
evidente, tra le righe: la
perversione del male, l’arroganza e la follia del potente, la sopraffazione del
corpo e le donne, la loro tenacia e la loro devastazione. Lo spettacolo offre
tantissimi spunti di analisi, tanti motivi per provare rabbia, tante domande,
ma quel che io continuavo a ripetermi era: il corpo dell’odio. Corpi nudi
privati di natura, spogliati di erotismo, corpi urlati.
In questo momento (e qui arrivano le trame del tappeto di cui parlavo
sopra) sto leggendo “Leggere Lolita a Teheran”, di Azar Nafisi. Proprio ieri
leggevo un passaggio in cui l’autrice parlava di come lentamente le leggi della
Repubblica islamica dell’Iran, l’avessero trasformata in un corpo invisibile.
Era costretta a nascondersi, coprirsi, cancellarsi per non offendere la morale. Il suo corpo era una minaccia, il suo corpo
era un codice dell’odio. E lei si ripeteva, io
non esisto. “Esisto? Esisto io? Questa pancia, questa gamba, queste mani?
Purtroppo i guardiani della rivoluzione e gli altri garanti della nostra
moralità non guardavano il mondo con i miei stessi occhi. Loro vedevano mani,
volti, rossetti; dove io vedevo una specie di fantasma che fluttuava etereo e
silenzioso lungo la strada loro individuavano ciuffi ribelli e calzette
sovversive.”
Quel che Penelope, nello spettacolo, continua a ripetersi per
sopravvivere è che il suo corpo è solo un involucro, un contenitore, una cassa,
la sua anima non può essere intaccata. Saperlo in qualche modo superfluo vale
spesso come salvezza, salvezza dall’umiliazione o dall’abuso (che a volte le
donne stesse ne fanno).
Il corpo è molto più di una custodia, il corpo è il nostro linguaggio,
è l’esperienza del mondo.
Con il corpo, su di esso e con esso, conosciamo l’amore,
e con esso capiamo l’odio.
Tutto ciò che abbiamo di più caro al mondo lo copriamo col nostro
corpo, per proteggerlo, per goderne, per viverlo e ricordarlo. Le mani parlano,
perché le mani cercano.
Attraversata con violenza la pelle non c’è più la strada del ritorno,
resta solo altro dolore, altra rabbia, altra tenacia (se si è forti abbastanza),
resta un’anima ferita, perché ciò che la contiene è stato saccheggiato.
Quel che facciamo del nostro corpo e del corpo degli altri è un
racconto, e dai tempi di Omero ai giorni nostri, da Est a Ovest, da Nord a Sud,
non fa che ripetersi la storia dell’odio.
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