domenica 1 aprile 2012

Parliamone

La parola è tutto. E’ il nostro luogo dell’essere.
Non mi metto qui a dare lezioni di greco, sarebbe di un’ipocrisia imbarazzante (mi porto ancora dietro testimoni dei miei fallimenti studenteschi), ma qualcosa di quegli anni di studio mi è rimasto e poi, ammettiamolo, è facile farsi domande e con google trovare risposte. Anche sui classici.
Per “logos” i greci non intendevano solo "parola", intorno ad esso ruotava un universo di significati che, anche se ce ne dimentichiamo facilmente, sono sempre e ancora legati. “Stima”, “relazione”, “misura” “argomento” “ragionamento” … “ragione”. Wow! Ragione.
Dare nome alle cose non per renderle reali, esse esistono indipendentemente da noi, ma per conoscerle. Per capirle. Per renderle misura, argomento, relazione e pensiero. Alla fine noi siamo, diventiamo, quel che diciamo, le parole che scegliamo, perché con esse facciamo esperienza del mondo e della vita.
Le parole sono il risultato della nostra vita. Vista così meriterebbero molta più considerazione e rispetto, no?
Per questo, e non per snobismo, mi fa rabbia la degenerazione della nostra lingua. Mi chiedo allora, parliamo male perché pensiamo male o pensiamo male perché parliamo male? Non è uno di quei "giochetti" filosofici tipo “è nato prima l’uovo o la gallina?”. Una cosa è certa, di mezzo c’è il dott. Internet, che a volte guarisce, il più delle volte accelera solo quello che siamo (o diciamo, pensiamo, facciamo). Chiarito dunque il fatto che considero Internet ed il suo variegato mondo di social network, uno strumento, un utensile moderno, e soprattutto una grande risorsa, quello che mi preoccupa è il modo di maneggiarlo. Anche con le pietre affilate per fare il fuoco ci si può tagliare.

Quando leggo sulla prima pagina, cartacea, di un quotidiano nazionale un terrificante congiuntivo sbagliato mi vengono i brividi, non solamente per l’errore in sé (o per il fatto che sia sfuggito agli occhi di tutti quelli che avrebbero il compito di evitare certe figure), ma soprattutto perché sapevo (e avevo ragione) che sarebbe passato inosservato. Quell’errore clamoroso sarebbe stato solo un sassolino nell’infinità di parole e informazioni che ci affogano ogni giorno. Ma non finisce lì. La mia preoccupazione aumenta quando su facebook trovo altri errori “di battitura” (“h” del verbo avere che scompaiono) e deprimenti attacchi di sintesi convulsa. E’ morto Antonio Tabucchi e trovo disseminati nelle bacheche dei miei amici (anche gente colta e intelligente) “R.I.P”, che sembrerebbe il titolo di una nuova serie televisiva, invece è un saluto post mortem. Il povero Tabucchi, uomo di scrittura e parola, si sarà agitato nella tomba. E così via, dagli sms a twitter la sintesi, dacché era un dono dell’oratore efficace e conciso, è diventata il linguaggio.
Lo so che divento fastidiosamente snob, ma preferisco scrivere tre volte un sms per contenerlo, piuttosto che usare la k o i numeri o le abbreviazioni. Al limite pago per 2 sms! E non pretendo che tutti soffrano della mia stessa malattia, ma ci deve pur essere una via di mezzo. Io accetto di scrivere t.v.b. ma non fatemi più trovare RIP!

Non sono i 140 caratteri di Twitter il problema, ma la sindrome dell’abbreviazione. Se scriviamo di fretta, ragioniamo di fretta. Ho sempre pensato che dietro il bisogno di scrivere e comunicare ci fosse “un’urgenza”, che è ben lontano dal concetto di fretta. Ho urgenza di conoscere e farmi conoscere e ho urgenza di vivere, ma se ho fretta di conoscere mi lascerò sopraffare da una valanga di notizie inutili, se ho fretta di farmi conoscere dimenticherò chi sono, se ho fretta di vivere mi annoierò presto.

Nessun commento: