martedì 18 maggio 2010

Molteplicità

A guardar bene non c'era altro posto al mondo più adatto ad ospitare la sede delle Nazioni Unite, di New York City. Sono stata a visitarla la settimana scorsa con Laralyn e una sua collega di università, che lavora lì e ci ha fatto da guida. Parte dell'edificio è in fase di ristrutturazione e molte sale le abbiamo viste vuote e abbandonate. Abbiamo attraversato corridoi con le bandiere del mondo, corridoi dedicati alla memoria, ai diritti umani, agli scopi dell'organizzazione.
Sono anche salita sul podio dell'assemblea generale a fare una foto scema per la serie "è da qui che salverò il mondo...giusto??".

Ma per quanto ci trovassimo nel cuore della diplomazia internazionale, là dove si presume il meccanismo del mondo debba scattare e procedere verso la pace e la pacifica convivenza degli umani su questa terra, il sentimento che mi accompagnava era di piccolezza.
La piccolezza dell'uomo nel migliorare il mondo di fronte alla sua capacità di commettere errori.
C'erano queste foto di bambini maltrattati dalle guerre e pensavo che finché ci sarà lo sguardo di un bambino profugo, armato e ferito da una mina antinuomo a fissarci spietato, le Nazioni Unite avranno fallito e con essa la nostra capacità di proteggerci.
Invece di darmi speranza, questa visita mi ha disilluso.
Tutta queste gente che si riunisce, cerca di mettersi d'accordo (mettendo sul piatto al centro della tavola rotonda i propri interessi) e borbotta cordialità col pugno armato, non può che farmi riflettere e spaventarmi.
Qual'è il punto di equilibrio su cui si appoggiano tutti questi Stati, su cui trema il mondo? Come salveremo la memoria ed il futuro?

Poi sono uscita, ho attraversato la città, ho continuato a vivere in questo strano ecosistema.
Qui dove ogni strada racchiude un mondo, dove si parlano centinaia di lingue, dove convivono (più o meno pacificamente) razze, etnie e culture diverse.
Mi dico che New York è l'esperimento riuscito, che si può fare. Ma mentre lo dico una parte di questa certezza cede, perchè il Bronx è dei neri, Green Point è dei polacchi, Astoria è dei greci, Spanish Harlem dei portoricani, Midtown degli ebrei, Bensonhurst degli italiani, ecc.
Convivono o semplicemente ciascuno rispetta i propri spazi senza invadere quelli altrui? O forse questo dovrebbe bastarci?

Da un po' di tempo notavo di aver visto poche coppie miste in giro, non almeno quante mi aspettavo di trovarne in una città del genere, dove confondersi e mischiarsi dovrebbe essere più semplice e naturale.
Qualche giorno fa ho trovato quello che cercavo, in un quadro di tenerezza e speranza che mi ha rigenerato.
Ero sulla metropolitana, presa da chissà quali inutili pensieri quotidiani, quando sono entrati due ragazzi, due adolescenti, che si tenevano per mano. Sono rimasti in piedi, vicino all'uscita, abbracciati, e parlavano sottovoce. Lei indossava la kefiah e lui la kippah. Ed io ho pensato che forse quello che si stavano sussurrando e tenevano chiuso nelle loro voci e nelle mani era un segreto. Il segreto di come si fa la pace.

A New York, un po' per "attrazione turistica" un po' per attitudine spontanea, si sente forte la presenza di John Lennon. Di fronte alla sua abitazione, a Central Park, c'è un mosaico dove la gente lascia spesso dei fiori. C'è solo scritto Imagine.
Forse è proprio quello il punto su cui si appoggia l'equlibrio fragile del mondo.

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