martedì 18 ottobre 2011

Palermo, amore e morte

Vivere l’Italia, staccarsene per ignorarla, quando il suo odore, la consistenza ed il sapore arrivano a nauseare. Ma poi fare un altro passo avanti, possibilmente cambiando direzione,magari con qualcuno che non ha niente da perdere, che è venuto qui da noi solo per stupirsi e farà ritorno a casa sua con tanta bellezza negli occhi da non vedere più e tante domande insolute da non sapere più che pensare.
E’ così che nelle ultime settimane ho vissuto l’Italia, facendomi domande, ma soprattutto ritrovando bellezza. Che poi le risposte non sono mai una soluzione, la bellezza sì.

Ho rivisto Perugia, Orvieto e Todi, ho rispolverato Roma, ma soprattutto ho scoperto Palermo.
Parliamo di Palermo.
Se è difficile definire la bellezza è perché quella vera, quella che disarma, è fatta di contraddizioni, e le contraddizioni si fa fatica a spiegarle. La loro natura è cambiare, sbagliare, tornare indietro, perdersi o ritrovarsi, loro, le contraddizioni, fanno di tutto per confondere le tracce. Per deluderti.
Palermo è una contraddizione.
Palermo è bella.

Prima di partire, io e Laralyn, ci siamo trovate di fronte ad una particolare coincidenza, ad entrambe è infatti accaduto più volte di raccontare in giro che saremmo andate a Palermo ottenendo sempre la medesima reazione “Ah! Bellissima, Palermo!”, al che noi curiose chiedevamo “Perché? Cosa c’è da vedere?” e la risposta era sempre la stessa “E’ bellissima.”
Che è come rispondere “sto bene” alla domanda “come ti chiami?”.
Già da qui avrei dovuto cominciare a prevedere i primi segni di nonsense, l’inspiegabile che genera fascino o confusione. A seconda che il caos piaccia oppure no.

Sono partita senza sapere assolutamente niente, non avevo idea di cosa aspettarmi, portavo con me una sola consapevolezza: non avrei fatto dei luoghi comuni le mie aspettative.
Non avrei messo la città e i suoi cittadini dentro una busta bollata, volevo una prima, pura, personalissima impressione.
Eppure anche le prime impressioni sono fatte di storia, specie quando si prende un’autostrada per raggiungere il centro città e già li si sentono i fantasmi di una storia troppo pesante da sopportare.
Ma nonostante tutto ero decisa a costruirmi la mia idea di Palermo.
Non che sia stata una decisione premeditata, è stata semplicemente una scelta spontanea, un modo di viaggiare.Fare i bagagli in fretta, portando come sempre più del necessario perché non c’è mai tempo per stare lì a pensare a cosa potrebbe servire e allora tanto vale munirsi di tutto e svegliarsi presto, imbarcarsi, ciondolare assonnati durante il volo (perché si è dormito solo poche ore la notte) e risvegliarsi seguendo le istruzioni per arrivare in albergo, anzi al B&B, che gli alberghi non sono da tutti, ma neppure questo B&B in fondo lo è.
Abali Gran Sultanato è un viaggio nel viaggio, forse prima di arrivarci non lo sapete nemmeno, nessuno si è preso la briga di informarvi, ma voi siete Alice e questo è il Paese delle Meraviglie. E come nel Paese delle Meraviglie non c’è mai tempo, bisogna correre dietro al bianconiglio, un’idea da trovare, una città da scoprire.

Due giorni per cercare di capire perché la città meriti una sola spiegazione, perché “è bellissima”.
Ci è bastato un giorno solo. Ci è bastato entrare nella Chiesa del Gesù, vicino il mercato di Ballarò.
Non mi ha mai sedotto il barocco, anzi lo trovo volgare, uno stile eccessivo per essere onesto, soprattutto dentro una chiesa. Non mi dà fiducia una chiesa barocca. Come non mi fido del lusso e del potere. Molto meglio la spiritualità brutale e grezza del gotico. Però lì dentro mi sono ricreduta. Il barocco siciliano parla solo per sé. E staresti ad ascoltarlo per ore. Una sorsata di fiato perduto e davanti a tanta pazienza, meticolosità, perfezione, geometria e dedizione non si può che trovare una sola parola “bellissimo”.

E poi abbiamo continuato a girare. Chi Palermo la conosce sa di cosa parlo quando cito, ancora incantata, la cappella Palatina del palazzo dei Normanni, oppure gli esterni magnifici della Cattedrale e ancora il Teatro Massimo, il Politeama, l’incrocio dei quattro Canti. Sì, c’è tanta bellezza che invade questa città antica e difficile.
Ma quello che mi è rimasto addosso è la bellezza che non si vede.
La bella che non si rifà alla perfezione, che si mantiene sporca, dimentica dei pregi da esibire e dei difetti da nascondere.
La decadenza che altrove sarebbe solo incuria qui diventa un’esclamazione, la rivendicazione dei propri errori, l’audacia di piacersi, nonostante tutto.

E ripensavo ad una lezione di italiano del liceo (che poi della scuola non ricordo quasi nulla, solo alcune memorabili lezioni), quando la professoressa ci introdusse ad “Amore e Morte” di Leopardi.
La vetta dell’amore si intreccia con la morte, e dopo tanti anni a modo mio ricordo e reinterpreto quel pensiero, l’idea che la morte renda sublime il momento di Amore assoluto. Non c’è null’altro dopo quell’istante di amore perfetto che vada la pena di essere vissuto, non resta che la morte.
"Ti ho baciato prima di ucciderti, ed ora che mi son tolto la vita non mi resta che morire in un tuo bacio" diceva Otello alla sua Desdemona morendo.

Palermo sembra saperlo, lungo le sue strade di sangue, nelle voragini dei suoi palazzi collassati, nei suoi umori brutali, quel che vibra è l’amore assoluto dimenticato, è la morte di passaggio, è la bellezza che non si guarda allo specchio, ma che noi solo possiamo riconoscere, in uno spazio vuoto da ascoltare.

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